Studi clinici in medicina:
epistemologia ed etica sul finire del secondo millenio

Articolo redatto dal dott. Enrico Aitini, Vice-Direttore della Divisione di Oncologia Medica ed Ematologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Estratto da CIVILTA’ MANTOVANA n° 106 anno XXXIII del Maggio 1998


Introduzione

Da alcuni mesi un profondo malessere attraversa, piu' che in altri periodi, il mondo della sanita' italiana: potrebbe trattarsi unicamente di una delle tante espressioni con cui una societa' manifesta, da anni, le proprie incertezze, la confusione, un esasperato senso di relativismo. Cosi' potrebbe essere.
Di certo il complesso rapporto medicina/societa' appare a tutti assai compromesso e questo, forse, anche per un mancato rispetto di quella scala di valori umani e scientifici presupposto necessario ad una civile convivenza. Le vicende di questo ultimo periodo hanno certamente generato nei pazienti e nelle loro famiglie nuove speranze nella cura di molte malattie, in particolare in quelle tumorali.
D’altro lato non trascurabile e' il disagio di chi opera un tentativo di acconsentire alle richieste di una popolazione sofferente e, nello stesso tempo, di mantenere una coerenza con quegli indirizzi scientifici nati da ricerche i cui esiti sono stati invalidati da metodologie universalmente riconosciute: dunque posizioni che, in certi momenti, sembrano inconciliabili, mentre, giorno dopo giorno, diviene piu' difficile capire dove alberghi l’etica medica dopo che quella dell’informazione, se mai sia esistita davvero, sembra comunque tramontata per sempre.
Ed allora obiettivo di questo breve saggio sulla sperimetazione medica negli ultimi anni del ventesimo secolo e' quella di analizzare metodi e strumenti attraverso cui uno studio clinico, ovvero un esperimento scientifico, condotto su un campione di pazienti affetti da una malattia, possa giungere a risultati utilizzabili per l’intera popolazione portatrice di quella particolare forma di patologia.
Oltre all’analisi degli aspetti metodologici, pero', si vuole qui anche valutare se e come la dimensione etica costituisca parte integrnate nel disegno e nell’esecuzione di tali studi.
L’attenzione sara' posta in particolare modo sulle problematiche oncologiche questo non solo per le note vicende degli ultimi mesi che mettono in luce una volta di piu' l’impatto fortemente emozionale che l’evento "tumore" scatena in pazienti, nuclei familiari e societa' intera ma anche perche' la metodologia degli studi clinici controllati e la validazione dei risultati tramite analisi di carattere statistico fanno parte, ormai da alcuni decenni, del patrimonio culturale dell’oncologia medica e dell’ematologia, evento di non facile riscontro in altre discipline mediche.
E risulta opportuno ricordare come la ricerca di base (attuata in laboratori) costituisca il requisito essenziale per fornire quei dati sperimentali, quelle premesse di ordine biologico e molecolare che, alla fine di questo secolo, molta luce hanno diffuso sui meccanismi di insorgenza e di progressione dei tumori.
Ematologia ed oncologia divengono cosi' tipiche discipline di quella avventurosa frontiera che corre tra ricerca biologico/molecolare e clinica.

Aspetti metodologici

In medicina, la storia degli studi clinici (clinical trial) risale probabilmente, alla meta' del XVIII secolo quando James Lind dimostro' una maggiore efficacia dell’assunzione di agrumi rispetto ad altre forme di terapia nel trattamento dello scorbuto.
Quel risultato ottenuto reclutando globalmente 12 pazienti indurrebbe un bonario sorriso sulle labbra di qualsiasi statistico, tuttavia, lo studio di Lind apporto' un non trascurabile contributo a quel grande capitolo del sapere definito come epistemologia, ovvero filosofia e metodologia della scienza.
Il XIX secolo espresse una costante ricerca di strumenti che consentissero una validazione dei risultati attraverso nuove tecniche quali, ad esempio, il confronto tra pazienti sottoposti alla terapia oggetto di studio e pazienti non trattati (braccio di controllo). Alla fine del secolo scorso, inoltre, fu introdotta la tecnica di "randomizzazione" che consiste nell’assegnare i pazienti a due diversi tipi di trattamento in maniera casuale.
Il suo ideatore non poteva certamente immaginare che l’utilizzo della tecnica "random" sarebbe stata alla base, nel secondo novecento, di tutti gli studi clinici atti a verificare l’efficacia di nuovi farmaci o di nuove combinazioni farmacologiche nella terapia delle piu' svariate tecnologie.
Il primo studio randomizzato in oncologia ed ematologia risale agli anni ‘50 e aveva l’obiettivo di confrontare l’efficacia di due farmaci utilizzati in diverse modalita' nella terapia della leucemia acuta linfoblastica.
Da allora, anno dopo anno, un numero illimitato di trials ha consentito di aumentere le guarigioni in pazienti affetti da patologia neoplastica dal 15% agli attuali 48-50%.
Il termine generico di "studi clinici" necessita, per una migliore comprensione del problema, di alcune puntualizzazioni. La valutazione di un nuovo farmaco, ad esempio, comporta vari "steps" successivi alle indagini precliniche, indagini queste ultime non eseguite sull’uomo ma su colture cellulari: questi passaggi vengono definiti fasi (I, II, III, e IV) il rispetto della cui sequenzialità (in particolare delle prime tre) costituisce l’indispensabile presupposto logico per poter validare i risultati.
Si parla in questo modo di studi di fase I (studio della tossicita' di un farmaco sull’uomo, dei suoi principali effetti collaterali, della dose massima tollerata), fase II (valutazione dell’efficacia del farmaco nei confronti di una determinata neoplasia utilizzando, ovviamente, le informazioni della fase precedente), fase III (confronto del farmaco con la migliore terapia tradizionale definita c ome "golden standard"), e fase IV ovvero valutazione degli effetti a lungo termine e in larga scala.
Ci occuperemo qui degli studi di fase III, cioe' di quelli che hanno contribuito maggiormente a definire lo stato dell’arte nella cura delle varie forme tumorali. Questi trials sono necessariamente prospettici, ovvero studi in cui le osservazioni sul campione preso in esame sono attuate successivamente al concepimento dello studio: sono inoltre controllati (confronto fra due terapie,abitualmente un nuovo tipo di terapia verso golden standard) e randomizzati (assegnazione casuale dei pazienti ad uno dei due bracci).
Alla base di questo tipo di sperimentazione esiste sempre un’ipotesi da verificare: la piu' comune e' quella relativa all’esistenza o meno di una terapia migliore (per risultati e tollerabilita') rispetto a quella considerata il golden standard.
Lo studio clinico deve essere formulato in maniera tale da poter rispondere al quesito racchiuso nell’ipotesi. Al momento della formulazione di uno studio clinico va redatto un protocollo che oltre ad esplicitare l’ipotesi costituira', durante tutte le fasi dello studio stesso, il riferimento operativo per il personale coinvolto.
Un protocollo tipico per questo tipo di sperimentazioni cliniche comprende i seguenti paragrafi:

  1. introduzione e razionale;
  2. obiettivi;
  3. selezione dei pazienti;
  4. disegno dello studio;
  5. programma di trattamento;
  6. follow up (modalità di controllo dei pazienti nel tempo);
  7. criteri di valutazione dei risultati;
  8. aspetti statistici;
  9. aspetti etici;
  10. raccolta dati;
  11. bibliografia.
Prenderemo in esame brevemente il paragrafo relativo alla selezione dei pazienti, soffermandoci invece piu' a lungo sugli aspetti etici.
La definizione precisa dei criteri atti ad individuare la popolazione presa in esame costituisce il momento fondamentale nella programmazione di uno studio clinico controllato il cui obiettivo e' quello di fornire risultati che non siano stati influenzati da un qualsiasi fattore estraneo allo studio: il rigore nella definizione dei criteri, infatti, consentira' di ottenere un campione omogeneo e quindi veramente rappresentativo della popolazione cui e' dedicato lo studio, prevedendo, con una determinata sicurezza, la probabilita' di ottenere un certo risultato: evento possibile utilizzando tecniche e strumenti di tipo statistico (test di significativita', deviazione standar, intervallo di confidenza).
Il medico sara' posto cosi' nella condizione di poter sciegliere nella sua pratica clinica quotidina, la soluzione che, con maggiore probabilita', offre a quel paziente il miglior risultato.
Risulta anche evidente come uno studio clinico di fase III che sia basato sulla valutazione della sopravvivenza non debba tener conto soltanto di un numero di pazienti tale da validare statisticamente lo studio stesso, ma anche di un adeguato periodo di osservazione (follow up).
Perche' questo possa offrire informazioni deve essere sufficientemente prolungato da rilevare gli eventi (ripresa di malattia, decesso) atti a definire l’impatto che i due (o piu') tipi di terapia possono avere sulla sopravvivenza libera da malattia (paziente vivo senza segni o sintomi della patologia per cui e' stato sottoposto a quella determinata cura) e su quella globale (pazienti con con e pazienti senza segni e esintomi della malattia).
Piu' lungo sara' il periodo di osservazione, piu' elevato sara' il numero degli eventi e di conseguenza maggiori saranno le informazioni relative all’efficacia dei trattamenti e, in ultima analisi, la potenza dello studio.
Numero di pazienti e tempo di osservazione restano forse i due cardini essenziali per limitare al massimo l’ampiezza della naturale imprecisione statistica.

Aspetti etici

Assai vivace e' oggi il dibattito su quanto l’etica entri a far parte integrante di queste sperimentazioni cliniche e quali siano gli strumenti atti a verificare il corretto rapporto tra tendenza utilitaristica universale e tendenza di utilita' rivolta al paziente e quale invece quello dell’intera comunita' di persone ammalate o che si ammaleranno della stessa patologia.
Ci si interroga su quali siano i livelli ove e' possibile verificare l’eticita' di una ricerca clinica. Esistono certamente alcuni presupposti che consentono una prima, pur generale, valutazione: il rispetto dei valori antropologici, i presupposti scientifici dello studio, la deontologia degli sperimentatori che deve essere ispirata a valori di solidarieta' e di indipendenza.
Generalmente, poi, all’interno del protocollo, nel paragrafo "aspetti etici" del trial si specifica che lo studio sara' condotto in accordo alle raccomandazioni indirizzate ai medici coinvolti nella ricerca clinica, raccomandazioni scaturite dalla diciottesima Conferenza Medica Mondiale tenutasi nel giugno del ‘64 in Finlandia, conosciute come Dichiarazione di Helsinki, e dai successivi aggiornamenti (Tokio 1975, Venezia 1983, Hong Kong 1989, Somerset West 1996): in questi anni si preferisce, per meglio esplicare tali problematiche, inserire nel protocollo il testo integrale della Dichiarazione.
Riteniamo possa risultare utile riportarne alcuni passi e commentarne altri.
L’introduzione recita tra l’atro: "E’ missione costante del medico salvaguardare la salute delle persone. Le sue conoscenze e la sua coscienza sono dedicate alla realizzazione di questa missione(...).
Un medico agira' solo nell’interesse del paziente nel momento in cui somministrera' farmaci che potenzialmente mostrano effetti collaterali sul fisico e sulla psiche del paziente stesso....".
Nei dettagli relativi alle sperimentazioni cliniche, poi, si sottolinea, tra l’altro, come questi studi debbano essere sottoposti al vaglio di un comitato indipendente (gli attuali comitati etici, espressione di varie competenze culturali: scientifica, etica, legale..) e condotti da personale medico particolarmente esperto in quella disciplina. Viene quindi ribadito il diritto alla privacy in tutte le sue espressioni e affermato con decisione come l’interesse del soggetto debba sempre prevalere su quello della scienza e della societa'.
Particolare attenzione e' dedicata inoltre a tutti i momenti relativi all’informazione (in termini di modi e di contenuti) che non vanno ricondotti al semplice ottenimento del consenso informato, ma ad una dettagliata descrizione del programma terapeutico: al paziente devono essere adeguatamente spiegati gli scopi, i metodi, i potenziali vantaggi e gli eventuali rischi connessi alla somministrazione dei farmaci, i possibili disagi che, in generale, puo' comportare il programma.
Il paziente deve essere ben conscio della sua possibilita' di rifiutare la partecipazione allo studio senza che questo precluda la migliore prestazione possibile da parte del medico come pure deve essergli assicurata la possibilita' di poter uscire dallo studio in ogni momento, senza che questo possa compromettere il rapporto di fiducia col medico o la garanzia di poter proseguire le cure in altro modo.
Con decreto del Ministero della Sanita' emanato in data 27 aprile ‘92, sono state inoltre illustrate le disposizioni relative alle condizione dei trials (in armonia con la direttiva CEE 91/057) ed in particolare le norme di "buona pratica clinica" (Good Clinical Practice).
Riguardo agli aspetti etici viene naturalmente ribadita la necessita' di una scrupolosa osservazione della Dichiarazione di Helsinki (e dei piu' recenti aggiornamenti) da parte di tutti gli operatori coinvolti nello studio.
A questo proposito, se da un lato si sottolinea come l’integrita' ed il benessere dei pazienti debbano essere responsabilita' primaria degli sperimentatori, dall’altro viene ribadito come la tutela dei diritti umani nella sua completezza sia compito peculiare dei comitati etici.
Appare evidente come anche il legislatore, abbracciando le proposte della Societa' Medica Internazionale concretizzatasi nella Dichiarazione di Helsinki, inviti lo sperimentatore a prendersi cura dei pazienti coinvolti nello studio attraverso una profonda visione antropologica della ricerca ed una cultura medica (e non solo tale) disposta a vivere la propria quotidiana responsabilita' nei confronti dei valori e del senso complessivo della vita.

Conclusioni

E’ nozione comune come la programmazione di uno studio clinico controllato, il suo disegno supportato da una valida letteratura scientifica, la sua esecuzione nel rispetto di regole etiche o degli aspetti relativi alla qualita' della vita (nelle sue tre principali componenti di benessere fisico, psichico e sociale), di criteri di selezionedei pazienti e di esigenze statistiche e temporali, costituisca un’impresa di non sempre facile realizzazione.
In questo confuso periodo che mette costantemente in luce un difficile rapporto fra medicina e societa', e' bene tuttavia ricordare che la scienza non concede deroghe e tutti gli aspetti sopracitati devono rimanere punti fermi nella realizzazione delle sperimentazioni cliniche dal momento che, oggi, queste costituiscono l’unica strada per validare i frutti che la ricerca di base quotidianamente propone.
Un severo controllo di qualità dei dati offerti da una sperimentazione clinica, un’attenta interpretazione dei risultati e, successivamente, l’analisi di piu' studi clinici randomizzati (meta-analisi), consente di definire, attraveso le "consensus conferences", lo stato dell’arte nella cura di determinate patologie in modo tale che, in un determinato momento, e' considerata la migliore terapia attuabile.


Dott. Enrico Aitini Vice Direttore della Divisione di Oncologia Medica
ed Ematologia dell’Azienda Ospedalera Carlo Poma di Mantova

INCONTRO TRA IL PAZIENTE E IL MEDICO

(problematiche relative alla comunicazione
della diagnosi di tumore e alle informazioni conseguenti)

(Tratto dagli atti del congresso "la qualita' della Cura in Oncologia" a cura di Ambrosini G, Barni S, Frontini l.- TRENTO, 3 Ottobre 1998)

Il Nuovo Codice Deontologico (in via di approvazione definitiva in questi primi giorni di ottobre) recita un passo: "Il medico ha il dovere di fornire al cittadino, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotivita' e delle sue capacita' di discernimento, la piu' serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche......" .
Cosa intendiamo per "idonea informazione" e che cosa puo' costituire ostacolo alla realizzazione di tale obiettivo?
A priori esistono almeno due condizioni che tendono a rendere problematica l’informazione tra medico e paziente. Per primo ci sembra utile ricordare che il corso di studi universitari di Medicina e Chirurgia puo' fornire, naturalmente, la laurea in Medicina e Chirurgia ma di certo non realizza quella che possiamo chiamare la condizione "di essere medico".
Se poi, nello specifico, andiamo ad analizzare quanti sono i corsi dedicati alle problematiche relative all’informazione e comunicazione, scopriamo che, nel mondo, sono pochissime le Universita' che prevedono un minimo di scolarizzazione in questo senso.
Un secondo problema e' costituito dal ruolo che i media giocano nell’informazione (o disinformazione) dei cittadini: e' strano e, in fondo anche amaro dover constatare come il ruolo dei "media" in molte situazione utile e coerente con i principi di liberta', in campo sanitario, anche tenendo conto di lodevoli eccezzioni ha spesso generato confusione tra i pazienti disorientamento, illusioni ma poca chiarezza. Sia quando si parlava di "male del secolo", "male incurabile", "male che non perdona" usando questi e molti altri termini al seguito di una fantasia che tentava di esorcizzare, ignorando volutamente il nome delle varie e numerose malattie che, ancora oggi, qualcuno tenta di racchiudere nel termine "cancro" (a sua volta esorcizzato !).
Cio' premesso, il quesito fondamentale che il medico, l’oncologo in particolare, si deve porre e' che cosa un paziente si aspetti da quello che spesso e' il momento della prima comunicazione o comunque l’occasione per chiarire eventuali dubbi sulla diagnosi, sui provvedimenti terapeutici e sulla prognosi.
Naturalmente il quesito va posto tenendo conto dell’estrema eterogeneita' delle condizioni soggettive ed oggettive, il vissuto di ogni persona, le condizioni cliniche, il tipo di malattia, l’eta' del paziente (ricordiamo che, soprattutto nella nostra cultura, la vecchiaia di per se' vissuta spesso come malattia), il grado di istruzione, l’intensita' dei rapporti interpersonali più stretti, il ruolo sociale, i tipi di trattamento previsti e cosi' via: queste sono tutte variabili in grado di influenzare il tipo di informazione sulla diagnosi e sulle sue conseguenze.
Se e' vero quindi che ricercare comportamenti standard conseguenti all’evento "tumore" costituisce un’ingenuita' o un errore, possiamo comunque ritenere, con un certo grado di sicurezza, che ogni paziente desideri, nel profondo di se', sentirsi comunicare che non esiste nessun pericolo per la sopravvivenza e neppure il rischio di veder trasformata la sua vita con decisioni che gli sono estranee.
Noi tutti sappiamo pero' che il piu' delle volte questo non e' possibile: anche iniziare una endocrinologia per bocca, priva di effetti collaterali importanti, o semplicemente sottoporsi con regolarita' ai controlli proposti nell’ambito di un abituale follow-up, puo' costituire un’importante violenza psicologica tale da alterare la progettualita' e con essa la qualita' di vita di una persona.
Questa consapevolezza, tuttavia, non e' patrimonio esclusivo del medico ma anche della maggior parte dei pazienti e cosi', almeno in una determinata tipologia di molti (forse la più diffusa), divengono preminenti altre aspettative, a cominciare da quella di un dialogo ove il paziente stesso possa giocare un ruolo attivo, prima di tutto trovando un adeguato spazio per essere ascoltato, per manifestare liberamente dubbi, incertezze, paure, speranze, il paziente, cioe', vuole conoscere ed essere conosciuto, comprendere ed essere compreso.
Una seconda esigenza e' quella di poter identificare nel medico incontrato un preciso punto di riferimento che si protrarra' nei mesi e negli anni successivi, evitando continui cambiamenti che potrebbero generare un senso di frammentarieta', di mancata linearita', di confusione nella gestione stessa della malattia.
L’identificazione di un riferimento costante, lo sappiamo bene, puo' risultare assai complesso nell’ambito di una struttura ospedaliera abbastanza articolata, tuttavia tale condizione potrebbe rivelarsi assai favorevole anche per il medico, consentendogli, durante l’approfondimento del rapporto con il paziente, una certa grdualita' di informazione.
Al di la' di questi aspetti, andrebbe in ogni caso affrontato anche il problema della "compliance" nei confronti di tutta l’equipe medico infermieristica e di tutte le altre persone che agiscono all’interno della struttura, quali segretarie, personale ausiliario, volontari....
Come operatori sanitari, riferendo a tale dizione lo sforzo per generare o quantomeno mantenere salute psico-fisica, inoltre, dobbiamo tutti possedere la piena consapevolezza di come il paziente sia in grado di percepire la professionalita', la sicurezza, la cordialita', l’effettiva partecipazione ai suoi problemi, la capacita' di farsi "contenitore" delle angosce che lo opprimono.
Durante questi colloqui viene facilmente percepita la differenza tra l’essere sicuro e il mostrarsi tale, tra la capacita' di cogliere i problemi secondo una corretta scala di importanza ed un semplice atteggiamento paternalistico. Costituire una corretta relazione medico/paziente significa in qualche modo entrare nell’essenza stessa della medicina, "nel cuore" di questa scienza e di quest’arte, secondo l’immagine proposta da alcuni autori anglosassoni.